alebegoli

pensieri, letture, allegrie e sconforti di una che fa le cose con passione

Vogliamo restare con le mani in mano?

[Questa è la newsletter che ho mandato il 1° agosto alle persone iscritte alla mia mailing list; scrivo ogni primo giorno del mese e di solito parlo anche di email marketing o più in generale di digital marketing, ma questa volta mi sono presa la libertà di parlare d’altro, avvisando comunque da subito i miei lettori e le mie lettrici che sarebbe stato un messaggio diverso dal solito. Lo ripubblico qui perché ho ricevuto tanti commenti e risposte, ben più del solito, e perché credo che oggi sia di questo che dobbiamo parlare e scrivere.]

Think global, act local

Ho sempre apprezzato lo slogan pensare globalmente, agire localmente: la seconda parte (agire localmente) ci ricorda di essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo, fare la nostra parte, interrogarci sulle conseguenze delle nostre azioni.

Agire localmente, per me, vuol dire trattenermi dal commentare troppo in fretta fatti di cui so poco o nulla. Ho anch’io, come tanti, pensieri orribili e reazioni di pancia, ma tendo a farli decantare invece che metterli per iscritto dove possono alimentare un flame; è l’ecologia della comunicazione a cui mi riferisco nella mia short bio Twitter.

Sull’impatto delle parole e su come usarle per modellare una realtà migliore, rileggere spesso il Manifesto della comunicazione non ostile e le sue declinazioni specifiche nei contesti dello sport, della politica e della scienza. Leggere e rileggere anche le riflessioni di Matteo Gagnor, uno degli sceneggiatori di Topolino, sulla necessità di usare le parole come strumenti e non come armi.

Agire localmente vuol dire scegliere il più possibile di lavorare per progetti che non siano in contrasto con le cose in cui credo.

La coerenza fra la propria visione della vita e quella del lavoro è uno dei punti chiave degli esercizi di Design your life, un libro che applica i principi del design thinking alla ridefinizione del nostro percorso di vita e lavoro.

Agire localmente vuole anche dire chiedermi sempre più spesso se davvero ho bisogno di consumare cose per stare bene, e come posso fare scelte quotidiane che riducano la mia impronta ecologica

Qui puoi calcolare la tua impronta ecologica. Io l’ho fatto da poco scoprendo che, se i quasi 8 miliardi di abitanti della Terra avessero il mio stile di vita, ci servirebbero un po’ più di due pianeti. L’impronta ecologica media è di 1,75 pianeti; infatti il 29 luglio è stato l’overshooting day, il giorno in cui globalmente abbiamo consumato quella che dovrebbe essere la nostra razione annuale di risorse.

Adesso è il momento di pensare globalmente

Non siamo in una situazione business as usual, non si tratta più solo di temperature assurde e fenomeni meteo estremi sempre più frequenti: ci stiamo avvicinando al tipping point, il punto di non ritorno.

Da alcune settimane stanno andando a fuoco le foreste e la tundra dell’Articocon un ritmo mai visto prima, rilasciando in atmosfera enormi quantità di anidride carbonica e accelerando lo scioglimento dei ghiacci; bruciano non solo gli alberi ma anche le torbiere, quindi l’incendio si propaga sotto la superficie del suolo e nessuno capisce come spegnerlo.

I ghiacciai che si sciolgono generano, sulle Alpi, frane e inondazioni; ai Poli, mettono a rischio la normale circolazione delle correnti marine aggravando ulteriormente gli sconvolgimenti del clima. Vogliamo far finta di niente?

La Terra è già cambiata abbastanza

Un conto è saperlo, un conto è vederlo: prenditi mezza giornata e, prima del 10 ottobre, vai al MAST di Casalecchio di Reno che ospita Anthropocene, una mostra pazzesca che racconta per immagini l’impatto che la nostra specie ha avuto e sta avendo sul pianeta. La mostra è gratuita e il MAST è uno spazio bellissimo, dammi retta e se hai figli o nipoti portaci anche loro.

anthropocene

Già che sei in zona Bologna, vai anche a vedere Ex-Africa, al Museo Civico Archeologico; la mostra è aperta fino all’8 settembre ed è un viaggio incredibile nell’arte e nella cultura di un continente, forse addirittura più bello della collezione africana del British Museum.

Se pensi che il nostro problema siano i migranti, sei vittima di un errore di prospettiva: i migranti sono un sintomo, sono persone che scappano da un continente in cui carestie e sfruttamento rendono la vita insopportabile.

Ma se superiamo quel tipping point sempre più vicino, prima di quanto pensiamo i migranti saremo noi, costretti a scappare da aree costiere sommerse, da paesi diventati torridi e in cui l’agricoltura, sconvolta dal cambiamento degli ecosistemi, non produrrà abbastanza da sfamarci tutti.

Diminuire i consumi, piantare alberi, ripensare l’economia e la società

Di questo dobbiamo discutere, di questo dobbiamo pretendere che si occupino seriamente i nostri politici: riconvertire l’economia, piantare alberi ovunque possibile (è una delle poche misure in grado, nel medio termine, di contrastare l’aumento dell’anidride carbonica in atmosfera), cambiare il sistema di valori che ci spinge ad accumulare soldi, oggetti, potere, inventarci un modo di garantire le pensioni agli anziani che non si regga sull’espansione demografica perché siamo già troppi per questo pianeta e non è pensabile crescere ancora, altro che appelli a tornare a far figli!

Sembra impossibile? Lo so, ma questa non è una scusa per non fare nulla.

L’alternativa è fare la fine della rana bollita un po’ alla volta, una metafora neanche tanto fantasiosa viste le previsioni del tempo.
E comunque non potrei guardare in faccia mio figlio se nemmeno ci provassi.

Ora torno a pensare al lavoro

La prossima newsletter (se vuoi riceverla, ti puoi iscrivere da qui) avrà dentro un sacco di email marketing, prometto: fatto comunque pensando alla sostenibilità, a smorzare il rumore per tornare a parlarsi, a usare le parole come strumenti e non come clave.

Partire per incontrare se stesse

in partenza

Non c’è viaggio che non mi abbia cambiata, e non conosco modo migliore di imparare che preparare una borsa leggera e muovermi, meglio ancora se da sola, ma con la ferma intenzione di incontrare altre persone.

I miei viaggi da ventenne nascevano spesso con la scusa di andare a trovare amici lontani: mi ospitavano loro, dovevo pagarmi solo il treno, che finanziavo coi soldi messi da parte lavorando d’estate e facendo economie sul mio esiguo bilancio da studentessa fuorisede.

Un’estate me ne andai da sola in Irlanda, e da lì, dopo dieci giorni di pioggia e tristezza, decisi, di nascosto dai miei genitori, di volare in Olanda, dove mi aspettavano il sole e un ragazzo conosciuto in campeggio l’anno prima. Fu una settimana di passione, sensi di colpa e scoperte, in cui presi le misure di quanto potevo camminare sulle mie gambe e cavarmela improvvisando soluzioni senza rete.

Qualche anno più tardi scoprii la Sicilia andando a trovare un “amico di penna” – ci si scriveva fra sconosciuti anche prima dei social network, io avevo incontrato il giovane architetto palermitano sulla bacheca di Linus e ci eravamo scritti per mesi, le sue lettere fitte di disegni meravigliosi. Con sua grande delusione, non mi innamorai di lui ma di Palermo, che pettinai avanti e indietro a piedi passando spesso attraverso quartieri off-limits, riempiendomi gli occhi di barocco e la pancia dei pranzi pantagruelici cucinati da sua madre.

Da quella volta, la Sicilia diventò una delle destinazioni predilette dei miei viaggi da sola, e fu in una piazza di Taormina che incontrai due scrittrici australiane di libri per bambini insieme alle quali girai l’Etna e le gole dell’Alcantara; già i maschi locali, vedendomi sola, mi abbordavano in inglese, tanto valeva calarmi del tutto nella parte di viaggiatrice straniera.

Le due scrittrici mi invitarono ad andarle a trovare a Melbourne e scoprire l’Australia e l’idea mi piacque subito. Avevo un sacco di ferie arretrate, chiesi all’ufficio personale l’intero mese di febbraio del ’95, comprai il biglietto e, due settimane prima della partenza, con trepidazione feci la mia prima telefonata intercontinentale per avvisare Pamela dell’orario del mio arrivo.

Con mio grande sconcerto, non mi rispose Pamela ma un gentile signore che mi spiegò che sì, Pam l’aveva avvisato che io sarei arrivata presto a Melbourne, no non poteva passarmela perché al momento Pam era a San Diego per lavoro e gli aveva lasciato in custodia la casa, e sì, sarebbe venuto lui a prendermi all’aeroporto e mi avrebbe ospitata nella casetta di legno in mezzo alla foresta sulle colline di Melbourne.

Fosse oggi, l’avrei già saputo, anzi saremmo stati già amici su Facebook – ma 21 anni fa io mi trovai a partire per un appuntamento al buio, con la prospettiva di convivere con uno sconosciuto che mi avrebbe ospitata in una casa isolata dall’altra parte del mondo; per quanto ne sapevo poteva trattarsi dell’assassino della mia amica che, dopo averla fatta a pezzi e stivata nel freezer, si apprestava a fare lo stesso con me.

Invece Trevor si rivelò una persona meravigliosa, con cui passai ore a parlare – di mio padre, che avrebbe avuto pochi anni più di lui ed era morto all’improvviso tre anni prima, di suo figlio che aveva da poco trovato il coraggio di fare coming out, della vertigine che dà l’Australia a chi arriva dall’Europa ed è abituato a paesaggi densi di tracce umane e di storia.

Dopo avermi fatto da ospite impeccabile nella casetta di legno in mezzo alla foresta, mi propose di trascorrere insieme un weekend lungo la Great Ocean Road, così partimmo sul suo fuoristrada – che in Australia ha senso guidare un Land Rover Defender, non come qui per portare i bambini a scuola; non avrei potuto desiderare una guida migliore.

In certi momenti rimpiango di non aver scritto di più, di non aver scattato più foto, di aver perso le tracce e in certi casi anche i nomi di tante persone incontrate; viaggiare oggi è ancora più bello, ora che posso riassaporare i colori e i ricordi ogni volta che voglio.

Poi penso che ci sono ancora tante mete da esplorare, e tanti incontri da cui farmi cambiare, e sono felice.

[Questo testo l’ho scritto per la guida di viaggio di Destinazione Umana, un progetto che ho visto nascere e a cui ho sempre piacere di contribuire, sia per lavoro che, come in questo caso, per amicizia]

[ricette veloci per madri snaturate] il salame di cioccolata

salame di cioccolata

Dopo aver partecipato a una serata della “Scuola di Alta Cucina Kenwood” e aver molto ammirato la maestria delle pasticcere che montavano creme, spremevano meringhe e sfornavano deliziose lingue di gatto, sono tornata ai miei dolci-lampo da madre snaturata, la cui massima prestazione annuale è organizzare una festa di Halloweeen-compleanno incastrata fra mesi di viaggi da una parte all’altra d’Italia.

I pezzi forti della festa – a parte la torta che o si compra o si affida alla santa nonna – sono ormai consolidati: la pizza, il castagnaccio e il salame di cioccolata: un dolce-salvavita, che ti fa fare bella figura anche se non hai voglia di cucinare.

Il salame di cioccolata è talmente facile da fare che è impossibile che venga male: l’unica attenzione necessaria è di prepararlo in tempo, perché deve stare una giornata almeno in freezer (ma questo lo rende ancor più utile perché non va a intasare la todolist delle ultime ore prima di un compleanno, o di una cena).

Essendo un dolce semplice, la sua bontà è direttamente proporzionale alla qualità degli ingredienti: io cerco il burro altoatesino, le uova di galline allevate a terra e il cacao fondente equo e solidale, che è profumatissimo e squisito. Gli ingredienti sotto sono per 6-8 persone:

  • 100 g di burro
  • 200 g di biscotti secchi (tipo Petit)
  • 100 g di zucchero
  • 50 g di cacao amaro in polvere
  • 50 g di noci e/o pinoli
  • 1 uovo freschissimo
  • 2 cucchiai di marsala

In una ciotola mescolo zucchero e cacao; aggiungo il burro lasciato intiepidire fuori dal frigo e tagliato a cubetti e l’uovo, e mescolo forte, cercando di sciogliere il burro. Sbriciolo i biscotti (non è un problema se restano alcuni pezzetti un po’ più grandi), sguscio le noci e le trito un po’; aggiungo biscotti e noci all’impasto, mescolando in modo da distribuire bene tutto.

A questo punto, viene la parte divertente: prendo un foglio di carta d’alluminio e ci verso sopra qualche goccia di marsala, stendendola bene in modo che poi l’alluminio non si attacchi al salame. Poi prendo il blob cioccolatoso, lo metto sul foglio di alluminio e modello uno o due salami, avvolgendoli nell’alluminio; metto in freezer a rassodare, e mi lecco voluttuosamente dita e ciotola.

[Dato che in classe con mio figlio c’è una bimba celiaca, alle ultime feste ho sostituito i biscotti petit con un pacchetto di frollini per celiaci e controllato che il cacao non contenesse glutine: risultato ottimo comunque!]

Quando è ora di mangiarlo, lo tiro fuori dal freezer, tolgo l’alluminio e taglio a fette – attenzione, dà dipendenza! Nel caso improbabile in cui ne resti un po’, potete rimetterlo tranquillamente in freezer e tirarlo fuori nei momenti di sconforto.

Tre giorni in Appennino, fra La Calla e Camaldoli

Era un po’ che meditavo di portare mio figlio a fare un’escursione a piedi passando qualche notte fuori, e finalmente l’ho fatto, scegliendo un percorso che è un vero e proprio classico per chi come me ha iniziato a fare trekking in Romagna: il sentiero La Calla – Camaldoli.

L’itinerario corre in gran parte sul crinale, lungo il sentiero 00 detto in questo tratto La Giogana, perché era il percorso lungo il quale i buoi “aggiogati” trainavano i tronchi tagliati nella foresta.

Impossibile perdersi perché il sentiero è largo e ben tracciato e, come molti sentieri di crinale, facile da seguire; ne trovate la descrizione su tantissime guide nonché nel pannello all’inizio di ogni tappa. Se volete documentarvi, consiglio di acquistare, in uno dei tanti Centri Visita del Parco, la guida “A piedi nel Parco“, e comunque di partire con una buona carta escursionistica 1:25.000.

Così, la mattina della vigilia di Ferragosto, io Guido e l’ingegnere siamo partiti da Ravenna (con la solita ora di ritardo rispetto alla mia tabella di marcia ideale) diretti verso il Passo della Calla (mt. 1320), dove abbiamo lasciato l’auto per metterci sul sentiero alle 11 del mattino. In un’estate normale, sarebbe stato meglio partire un po’ più di buon’ora, ma quest’anno la stagione è quella che è, e quel giorno il crinale era spazzato da raffiche di vento freddo che ci hanno tormentato per tutto il giorno.

Il sentiero corre in mezzo alla foresta, una splendida faggeta bella in tutte le stagioni: l’ho percorsa in autunno ammirando i colori delle foglie, e d’inverno stregata dalle sculture gelate della galaverna, e ne è sempre valsa la pena.

sulla Giogana

Verso l’una, prendendocela comoda – che non siamo più abituati a camminare con lo zaino carico – siamo arrivati a Poggio Scali, il punto più alto di quel tratto di crinale (mt.1520); la cima si raggiunge per una deviazione dal sentiero (rispettate le indicazioni, ché siete nel mezzo di una riserva forestale integrale!), e da lì si può ammirare tutto il crinale, e, nelle giornate limpide, vedere perfino il mare.

poggio scali

Dopo quasi tre ore di cammino dalla Calla, dal crinale si stacca sulla destra il sentiero no.68 che scende ripido verso Camaldoli. Quasi subito il bosco cambia e la faggeta lascia il posto agli abeti bianchi, altissimi e fitti: una foresta curata nei secoli dai monaci che ne hanno gestito i tagli e le piantumazioni, creando un ecosistema apparentemente “naturale” ma in realtà modellato dagli uomini e dalla storia.

E io, sarà perché sono i sentieri in cui ho iniziato a fare trekking, sarà perché è la mia terra, sarà perché ho sentito tante volte raccontare le storie di questi boschi e la vita delle persone che li hanno abitati fino a poche decine di anni fa, ecco io ogni volta me ne innamoro di nuovo: di un amore forse più usato e domestico di quello per le cime spettacolari delle Dolomiti, ma non per questo meno profondo.

La discesa verso Camaldoli è ripida, e le ginocchia già provate chiedono attenzione, così ci prendiamo un po’ più tempo dei 20′ previsti, ma non importa. Il bosco è tanto fitto che fino all’ultimo momento il muro dell’Eremo resta nascosto nella foresta, e te lo trovi davanti a sorpresa: ecco, qui gli escursionisti “tosti” fanno tappa e tornano indietro in giornata lungo lo stesso percorso, invece noi facciamo una piccola sosta – siamo troppo stanchi e sudati per visitare l’Eremo adesso – e proseguiamo in discesa, verso il Monastero.

Fra l’Eremo e il Monastero potete scendere o lungo la strada asfaltata, leggermente più lunga ma meno accidentata, o per il sentiero che taglia i tornanti e segue in molti punti il tracciato dell’antica mulattiera (noi, trascinati da un instancabile Guido evidentemente bene allenato dopo le due settimane di Alto Adige abbiamo fatto il sentiero). In tre quarti d’ora si arriva al Monastero e qui ci sono il Centro Visite, un paio di alberghi-ristoranti-bar e una focacceria dove potete rifornirvi in abbondanza per il pranzo al sacco del ritorno.

Albergo Camaldoli

Sia l’Eremo che il Monastero hanno una foresteria, dove ovviamente vengono ospitati gruppi o, più raramente, persone singole, motivati da una spinta religiosa o dal bisogno di ritirarsi in meditazione, o partecipare a una delle iniziative di preghiera del Monastero (che, nei secoli, ha sempre funzionato come struttura di ospitalità a supporto e tutela della quiete dell’Eremo).

Io stessa, saranno ormai passati più di trent’anni, ho dormito all’Eremo insieme agli scout, e ne ho un ricordo bellissimo, nonostante l’inverno e il freddo patito durante la notte. Oggi che sono diventata una viandante laica e senza dio ho prenotato all’albergo Camaldoli; l’altra opzione è la Locanda Tre Baroni (attenzione, le foto che vedete nel sito sono di un’altra struttura, quella deluxe a Poppi, mentre l’albergo di Camaldoli è del tutto simile a quello dove abbiamo dormito noi), o, se siete eroici e vi siete portati la tenda sulle spalle, il campeggio più sotto.

L’albergo è vecchiotto ma confortevole, i pavimenti delle camere sono tavolati di abete annerito dal tempo, da cui nelle primissime ore del mattino filtra il profumo dei dolci cotti nel forno al pianterreno.

A cena potete recuperare tutte le calorie consumate sui sentieri, ribaltandovi di tortelli, porcini, tagliata, formaggi e salumi del Casentino: dignitoso anche il vino della casa, prodotto nelle vigne dei monaci, e da assaggiare gli amari, sempre prodotti nella distilleria del monastero.

tagliata con funghi porcini

Il nostro programma era di passare due notti a Camaldoli, per fare un po’ di pausa fra l’andata e il ritorno a piedi; in realtà durante il secondo giorno tutto abbiamo fatto tranne che stare in pausa, anche perché intorno al monastero c’era la bolgia dei gitanti di Ferragosto da cui volevamo tenerci il più lontano possibile.

Così, di prima mattina, abbiamo visitato il Monastero e la sua antica Farmacia, con alambicchi, mortai, vasi e mirabilia, e una piccola ma molto interessante biblioteca di manoscritti e libri antichi. La tappa è altamente consigliata – l’unica cosa che ci ha trattenuti dal fare incetta di liquori e creme è stato il pensiero che avremmo dovuto portarli indietro in spalla, ma ci torneremo.

antica farmacia dei monaci di camaldoli

Poi siamo scappati su per il sentiero natura, un percorso circolare di un’ora e mezza circa che mostra vari aspetti del bosco, dall’abetina al bosco misto di aceri e querce, fino a un antico castagneto dove ancora resiste il monumentale Castagno Miraglia, età stimata dai 400 ai 500 anni – e ce ne sono altri, altrettanto belli.

il Castagno Miraglia

Mangiata la nostra schiacciata nei pressi del Castagno Miraglia e terminato il sentiero natura, siamo risaliti all’Eremo, assediato dalla bolgia di Ferragosto, a cui ci siamo accodati per fare una delle brevi visite guidate all’interno.

Eremo di Camaldoli

L’Eremo è un luogo che riesce, perfino il 15 di agosto, a comunicare un senso di pace e liberazione attraverso il silenzio. Mi è sembrato del tutto naturale scoprire che, una volta alla settimana, uno dei monaci tiene sessioni di yoga e meditazione, e leggere, nelle note distribuite all’ingresso, un’introduzione al concetto di vita monastica ed eremitica che accosta fra loro esperienze anche molto lontane dai confini del cattolicesimo.

Quando ero una scout, una delle giornate che mi piacevano di più al campo estivo era quando ai più grandi (15-16 enni) veniva prescritta la “giornata del silenzio”, che ciascuno di noi avrebbe dovuto trascorrere esplorando da solo il bosco, pranzo al sacco e quaderno per gli appunti. In molti baravano e si davano appuntamento un po’ lontano dal campo, magari fra morosi; io invece me ne stavo felicemente da sola, non per senso del dovere (col moroso dell’epoca ci imboscavamo la notte, uscendo di nascosto dalle tende), ma perché camminare da sola mi dava un senso di impagabile libertà. Non potrei vivere sempre in eremitaggio, ma quando incontro la solitudine scelta e vissuta consapevolmente è sempre come se il mio respiro si facesse più ampio e profondo.

Insomma alla fine nella nostra “giornata di pausa” abbiamo camminato per più di tre ore, ma è andata benissimo così. Ero un po’ preoccupata dal ritorno, che in genere prende più tempo perché la salita dagli 800 del Monastero ai 1.300 circa del crinale è lunga, ma per nostra grande fortuna quest’anno una piccola cooperativa di Stia ha iniziato a sperimentare un servizio di bus navetta per escursionisti, attivo nei weekend (il prossimo sarà l’ultimo, quindi se volete approfittarne partite al volo!).

Il bus fa la spola fra il monastero di Camaldoli e Badia Prataglia passando per l’Eremo e per varie tappe sul percorso di crinale: noi ci siamo fatti lasciare a Prato alla Penna, sul crinale 00, un ottimo punto per riprendere la Giogana in direzione La Calla.

Prato alla Penna è un po’ oltre il punto in cui all’andata si scende verso Camaldoli, ma partendo da qui vi risparmiate 500 mt di dislivello in salita, e fate tutto il ritorno sul falsopiano del crinale; e poi in questo punto il bosco è veramente splendido, perché ai faggi si alternano gli aceri – tornare in autunno, senz’altro!

Partiti alle 11 da Prato alla Penna col sole, dopo un’ora di cammino siamo entrati in una nuvola che in pochi minuti si è trasformata in pioggia, sottile ma tenace: per qualche oscuro motivo, questo inconveniente ha “caricato” Guido, che ha fatto tutto il sentiero senza mai lamentarsi o reclamare una pausa. Abbiamo “tirato” oltre Poggio Scali, e ci siamo fermati all’una e venti in un punto in cui alcuni enormi massi di arenaria creano una piccola grotta: qui abbiamo mangiato velocemente, mentre fuori dalla grotta per fortuna la pioggia iniziava a calare.

pranzo in grotta sul crinale

L’ultimo tratto del sentiero l’abbiamo fatto quasi di corsa, più che altro per riscaldarci, e infatti siamo arrivati al Passo della Calla nelle tre ore e 20′ previste dalle guide; un debole sole bucava le nuvole, ma il termometro dell’auto segnava 10°C, a memoria che in montagna, anche sul domestico Appennino, bisogna sempre partire attrezzati per ogni possibile scherzo del tempo.

Viaggiare a piedi ti fa entrare una terra dentro, come tutte le esperienze che ti impegnano il corpo e non solo la mente. Se c’è una cosa che mi rende felice è vedere che sta cominciando a piacere anche a Guido, magari è fortuna, e magari per una volta abbiamo avuto abbastanza pazienza da provarci.

 

di feste del papà e di farsi avanti

La festa del papà è una di quelle feste commerciali un po’ farlocche che non ho mai amato, ma che inevitabilmente respiri perché su Facebook ogni tre post ce n’è uno di auguri. Oggi poi tanti dei miei amici si sono messi a pubblicare foto di loro da bambini, coi rispettivi padri, e insomma un po’ di nostalgia mi è caduta addosso.

Allora sono andata anch’io a riaprire l’album, per rivedere me bambina 40 anni fa, al mare con mio babbo.

io e il babbo

Un babbo sorridente e fiero, che ci ha lasciate troppo presto ma che è stato forse una delle persone che più mi ha fatta diventare quel che sono.

Mi veniva in mente in questi giorni, in cui sto leggendo un bel libro che consiglio a tutti: “Facciamoci avanti. Le donne, il lavoro e la voglia di riuscire” di Sheryl Sandberg: un libro che parla di come le donne debbano superare prima di tutto i limiti che loro stesse si pongono, e imparare ad alzare la mano più spesso, a prendersi delle responsabilità, a impegnarsi duro.

Mio padre per tutta la vita mi ha sostenuta, convinto che avrei potuto fare tutto quello che mi fossi messa in testa di voler fare.

Non è una cosa scontata per una figlia femmina, nemmeno oggi, e tanto meno lo era 40 anni fa: ma io, da lui, ho assorbito ogni giorno la consapevolezza di poterci provare, senza preoccuparmi né del fatto di essere una femmina né di venire da una famiglia modesta.

I miei mi hanno sempre detto “sei brava, se hai voglia di impegnarti noi faremo tutti i sacrifici che servono per farti studiare”. Entrambi avevano dovuto smettere di andare a scuola alla fine delle elementari, e, soprattutto per mio padre, questo era stato un enorme dolore; nonostante questo, avevano ben chiaro che continuare a studiare doveva essere una scelta mia, non un modo per compensare una loro mancanza.

È mio padre che mi ha insegnato a farmi avanti: lui che aveva compensato con l’esperienza e la lettura quello che non aveva potuto imparare sui banchi di scuola, e che non si sentiva in imbarazzo di fronte a nessuno: dottori, professori, dirigenti, politici. È da lui che ho imparato a contare sulle mie qualità e a impegnarmi per realizzare le cose in cui credo. È da lui che ho imparato a non stare zitta, a prendere la parola, a non aver paura di essere io il capo.

Ora io non ho figlie femmine a cui trasmettere questo senso di sé, ma a mio figlio cerco di insegnare l’impegno e il rispetto, e il non dare nulla per scontato. A casa nostra ci dividiamo le responsabilità e i compiti, e nostro figlio cresce – a giudicare dai suoi disegni – con un’idea molto aperta di ciò che possono fare uomini e donne.

Come scrive Sheryl Sandberg nel suo libro, “la rivoluzione avverrà una famiglia per volta“; nella mia, è iniziata almeno una generazione fa.

Liberiamo una ricetta: il castagnaccio

[Questo post partecipa all’iniziativa #liberericette #freearecipe]
castagnaccio

La ricetta del castagnaccio me l’ha regalata Michele Nardi, il meraviglioso cuoco dell’Hotel Cernia; buono come lo fa lui non mi verrà mai, ma vi assicuro che il risultato vale comunque la pena – soprattutto perché il procedimento è facile e veloce.

Ingredienti

  • 300 g di farina di castagne
  • 1/2 lt di latte
  • il succo di un’arancia dolce
  • uvetta passa e pinoli
  • rosmarino
  • olio extravergine d’oliva

(mio marito insiste che ci metta anche un cucchiaio di zucchero, ma a me piace così, con l’amarognolo della castagna addolcito dalle uvette)

Procedimento

Mescolate bene la farina di castagne col latte, ottenendo una pastella molto liquida.; aggiungete il succo d’arancia, e terminate di mescolare.

Prendete una teglia larga o la piastra del forno, un foglio di carta forno, bagnatelo e stizzatelo e stendetelo sulla teglia; versate un paio di cucchiai d’olio, e stendeteli sul fondo: siate abbondanti, la teglia deve essere unta bene (in alcune ricette l’olio viene messo anche dentro al castagnaccio stesso).

Versate la pastella nella teglia: lo spessore deve essere di circa un centimetro. Distribuitevi sopra l’uvetta (che avrete in precedenza lavato e strizzato), i pinoli e gli aghi di rosmarino.

Infornate nel forno già caldo (160°-180°) e fate cuocere per 10-15 minuti: quando inizia a spandere il suo delizioso profumo, e si stacca dalla teglia, è pronto. Potete anche mangiarlo tiepido, attenti a non finirlo subito!

Buon viaggio ricetta!

“Le storie sono per chi le ascolta, le ricette per chi le mangia. Questa ricetta la regalo a chi legge. Non è di mia proprietà, è solo parte della mia quotidianità: per questo la lascio liberamente andare per il web”

Perché voterò Matteo Renzi

Fra due settimane ci saranno le primarie del centrosinistra: no, non sono “le primarie del PD”,  anche se in giro trovo diverse persone convinte che per votare occorra essere iscritti al partito, segno che la pretesa del PD di stabilirne regole e governarne l’organizzazione è un danno prima di tutto per la partecipazione democratica.

Come è noto a chi mi frequenta, online e offline, non solo voterò Matteo Renzi (e ne ho finanziato la campagna versando un contributo sul sito Adesso! Partecipo), ma sto cercando di dare una mano al comitato ravennate che sostiene la sua candidatura: e lavorerò in tutti i modi perché sia Renzi il candidato premier alle elezioni politiche del 2013.

E, lo dico chiaramente, se non sarà Renzi a vincere queste primarie, io non voterò il PD di Bersani, e, in mancanza di qualche novità rilevante che faccia emergere dalla melma partitica attuale una proposta realmente nuova e seria, per la prima volta nella mia vita, nel mio trentesimo anno da elettrice (tutto speso a sinistra, passando dal PCI ai DS all’Ulivo al PD) il mio voto non andrà a nessuno.

Voto Renzi perché è l’unico che riesce a parlare (ancora?) in un linguaggio umano: ha spazzato via il politichese, con la stessa allegra noncuranza con cui io mi rifiuto di adattarmi all’aziendalese o al gergo del marketing. Tuttavia, ho la pretesa di non confondere lo stile coi contenuti: anche Berlusconi non parlava da politico, ma i suoi erano discorsi da cumenda arrembante con una visione del mondo ferma agli anni ’50 (le barzellette sulle segretarie), non da uomo del XXI secolo, abituato a confrontarsi in modo diretto anche online. Quindi, mi piace come Renzi dice le cose che dice, ma soprattutto mi piacciono le cose che dice.

Voto Renzi perché dichiara che il suo non è un mandato a vita: vuole provarci come presidente del consiglio, ma, se non dovesse vincere, tornerà a fare il sindaco di Firenze e poi, al termine del suo mandato, si metterà a lavorare “nel privato”. In un paese in cui si fa carriera politica restando pervicacemente attaccati al proprio scranno locale a costruirsi le alleanze che ti pagheranno lo stipendio futuro in qualche ente o azienda amica (lo spiega benissimo il sindaco di Forlì Roberto Balzani in Cinque anni di solitudine. Memorie inutili di un sindaco) questa è una dichiarazione rivoluzionaria.

Voto Renzi perché il suo programma è leggibile e concreto:

  • i parlamentari sono troppi e i partiti non sono enti pubblici: abolizione o riduzione drastica del finanziamento pubblico ai partiti, che si devono pagare coi contributi dei loro sostenitori (vedi Ritrovare la democrazia)
  • bisogna investire sulla scuola, partendo dall’edilizia scolastica (che, posso dirlo per esperienza diretta, è vergognosamente inadeguata) e riorganizzando la scuola sulla base della qualità della formazione che si dà ai ragazzi, non della salvaguardia delle graduatorie di anzianità (quindi: formazione continua dei docenti e selezione per merito, vedi Investire sugli italiani)
  • la crescita si favorisce partendo dalle piccole opere, quelle che incidono direttamente sulla qualità della vita e creano le condizioni per lo sviluppo: asili nido, banda larga, manutenzioni (vedi Un nuovo paradigma per lo sviluppo: partire dal basso smantellando le rendite)
  • bisogna ridurre la pressione fiscale, sia quella diretta, sia la tassa occulta dell’aberrante complicazione del sistema fiscale italiano, che costringe le persone e soprattutto le imprese a perdere tempo e risorse in misura spropositata rispetto a quanto avviene negli altri paesi (vedi Un fisco dalla parte di chi lavora e intraprende)
  • la pubblica amministrazione deve essere riorganizzata completamente, secondo meccanismi di trasparenza, semplificazione, digitalizzazione e adottando il criterio del merito e dell’efficienza (vedi Uno stato semplice dalla parte dei cittadini)
  • sulla sicurezza: accorpare le (troppe) forze di polizia, capire le dinamiche delle migrazioni per ridurne l’impatto sull’ordine pubblico, affrontare il problema della violenza sulle donne come problema di disuguaglianza e pregiudizi culturali, ripensare la Fini-Giovanardi introducendo forme di depenalizzazione: buonsenso allo stato puro, sapete quanto mi piace (vedi La garanzia della sicurezza)
  • cittadinanza per chi nasce in Italia: nel terzo millennio mi sembra sia ora di abbandonare lo ius sanguinis per passare allo ius solicivil partnership per gli omosessuali: per quanto mi riguarda, sono favorevole al matrimonio a prescindere dal sesso, ma preferisco di gran lunga una promessa concreta e verificabile rispetto al vago proposito di aprire un tavolo che va da Casini a Vendola e chiuderlo solo quando saranno tutti d’accordo (l’anno del mai il 36 d’agosto, si dice dalle mie parti); riconoscimento del fatto che le famiglie sono cambiate, e questo significa divorzio veloce, regole e diritti anche per le convivenze, norme civili per la fecondazione assistita; rivedere completamente la regolamentazione del diritto d’autore, perché non si può gestire il presente con norme scritte in un’epoca diversa (la sezione Diritti all’altezza dei tempi del programma è una delle mie preferite)

Il nostro paese ha grandi risorse ma deve cambiare completamente rotta, e l’unico modo per farlo è un imponente ricambio della classe politica degli ultimi decenni e un taglio netto con un sistema di governo e sottogoverno che ha premiato gli amici invece che i capaci.

La peggiocrazia di cui parla Zingales io l’ho vista all’opera da dentro, in anni in cui, lavorando in un’azienda “del sistema”, ho dovuto combattere ogni volta per scegliere i fornitori, i partner con cui collaborare, gli eventi a cui partecipare: a volte ho vinto, a volte ho perso, e alla fine, stanca dei rospi che mi venivano messi nel piatto, ho deciso di tornare libera, dato che ero convinta (a ragione) di non lavorare grazie a una tessera (che non ho mai preso) ma per capacità ed esperienza.

Quando Matteo Renzi dice che nella sua squadra non metterà quelli più fedeli ma quelli più bravi, quando rivendica orgogliosamente come eredità che gli ha lasciato l’esperienza scout la voglia di giocare e di lasciare il mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato, quando da sindaco informa i suoi cittadini in modo diretto e veloce (come oggi si può fare ed è un crimine non farlo, ne scrissi a febbraio riguardo alla gestione dell’emergenza neve), io mi ci ritrovo: posso non essere d’accordo col 100% delle sue affermazioni (e ci mancherebbe!), ma riconosco in lui un uomo del nostro tempo, e penso sia il momento di far guidare il paese a uno che ha dieci anni meno di me. Adesso!

Vita al maso

Siamo da una settimana in Val Casies, ospiti del maso Haus Hilda di cui ho più volte scritto nell’altro mio blog.

Quest’anno al nostro arrivo non c’erano altri bambini, ma Guido ha trovato subito modo di tenersi impegnato seguendo il giovane Daniel e Frau Hilda in tutte le incombenze della stalla. Così ora, quando torniamo a casa nel pomeriggio dopo una camminata, si precipita a indossare gli stivali di gomma e sparisce alla nostra vista, perché c’è da seguire la mungitura delle mucche, spettacolo evidentemente più avvincente dei cartoni animati di Rai YoYo (mai chiesto di accendere la televisione da quando siamo arrivati).

Ogni giorno ci ragguaglia sullo stato dei vitelli appena nati, dei quali è informatissimo; questo weekend sono arrivati il bimbo dell’anno scorso con due cugini, e li ha subito portati in visita nella stalla.

L’altro ieri, dopo una conversazione con Hilda sull’alimentazione dei maiali (al maso ne allevano due per produrre ogni anno lo speck per il consumo casalingo), è arrivato in appartamento e ha detto che non dovevamo più buttare via le bucce della frutta e delle patate, perché voleva portarle ai maiali; così abbiamo praticamente azzerato la frazione organica della nostra raccolta differenziata.

Ieri sera, verso l’ora di cena, è apparso in casa mezzo fradicio e tutto puzzolente, annunciando che aveva avuto “un piccolo problema dando da bere ai maiali” e che pensava fosse ora di fare il bagno.

Mai stata così contenta di fare un bucato.

Un giro in Valle Baiona a fare birdwatching con Giacomo Benelli

Proprio dietro a Marina Romea si trova la Pialassa Baiona, una zona umida salmastra che fa parte del più vasto sistema delle valli del Delta del Po.

Passeggiare lungo i sentieri che attraversano la valle, a piedi o in bicicletta, è bellissimo, in tutte le stagioni (in estate, non senza essersi spalmati di antizanzare ;-)), e io ci porto spesso mio figlio, soprattutto quando facciamo base nella casa del mare dei nonni che è proprio attaccata alla valle.

Nei giorni scorsi ho conosciuto Giacomo Benelli, guida naturalistica e appassionato di birdwatching, che fra le altre cose organizza dei tour in barca fra i canali e i chiari della Pialassa Baiona. Dato che [disclaimer] sto lavorando per la Proloco di Marina Romea, cercavo un po’ di informazioni proprio sulle opportunità di turismo naturalistico in zona, così Giacomo è stato tanto gentile da accompagnarmi in uno dei suoi giri.

Ne ho approfittato per arricchire un po’ il mio set Flickr sulla Valle Baiona, e per girare un breve video.

Se volete anche voi fare un salto da queste parti per fare birdwatching e scattare foto migliori delle mie, trovate tutte le info sulla pagina del sito della Proloco dedicata al birdwatching a Marina Romea.

Il tappo del serbatoio e lo stato corrente della morale in Italia

La scorsa settimana ho comprato e letto in un pomeriggio “La libertà dei servi” di Maurizio Viroli, professore ordinario di Teoria politica all’Università di Princeton. Un’analisi spietata della storia passata e recente d’Italia, che mostra come nel nostro paese la demagogia abbia la meglio sulla democrazia matura, e i cortigiani siano largamente maggioritari rispetto agli uomini liberi. Cito Viroli:

Insegnare a ragionare su questioni morali è forse in Italia il più urgente impegno civile. L’analfabetismo morale ha raggiunto proporzioni allarmanti, forse più di quello letterario. Evidenti errori di ragionamento – “ma lo fanno tutti, perché non dovrei farlo anch’io?”; “ha violato le leggi, ma ha fatto anche del bene”; “è corrotto, ma è anche simpatico”; “non ha alcuna integrità, ma è intelligente”, e via di questo passo – sono diventati luoghi comuni. […] Siffatto modo di ragionare, si fa per dire, nasce dall’evidente intento di giustificare la violazione delle regole per potere essere poi trattati in analoghe circostanze con analoga benevolenza. Con l’ovvia conseguenza che i disonesti sono premiati e circondati da approvazione e gli onesti puniti e circondati da disapprovazione e spesso da malcelato disprezzo.

Le parole di Viroli mi sono tornate in mente sabato mattina, mentre facevo il rifornimento di metano. Quest’estate, durante l’ultimo pieno fatto a Brunico, l’omino del distributore ha appoggiato il tappo del serbatoio della Multipla non sul tetto dell’auto, come fanno i bravi omini, ma di fianco all’erogatore, dimenticandosi poi di rimetterlo. Se n’è accorto l’addetto al pieno successivo, purtroppo per noi sulla strada di casa (a metà della Statale Romea); ci ha avvisati, e ci ha detto che non era un problema grave perché comunque il tappo è pressoché inutile (ci pensa la valvola a tenere il gas dentro). Però io ogni tanto ci penso, al mio tappo, e mi dico che forse dovrei ricomprarlo.

Ieri mattina, mentre pagavo il pieno, ho chiesto all’addetto del distributore “dove posso comprarne uno nuovo?” Lui si è messo a ridere, e mi ha detto “semplice: parcheggi vicino a un’altra Multipla, e glielo freghi”; alla mia faccia perplessa, ha aggiunto “ma lo sai quanto costa? capace che ci spendi 22-23 euro, per un tappo nuovo!”. Io gli ho detto che se devo mettermi a rubare per risparmiare 22 euro, sto anche senza, o aspetto di passare da uno sfasciacarrozze, e lui ha insistito “comunque va bene anche se è una Panda!”.

Qualche ora dopo ho raccontato l’episodio ad alcuni conoscenti, e uno di questi ha detto che lui avrebbe fatto proprio così, “tanto in Italia rubano tutti, c’è gente che ruba miliardi, e tu ti fai problemi per un tappo di serbatoio”.

Sì, un tappo è niente, e ciascuno, me compresa, ha i suoi peccati da discutere con la propria coscienza. Ma questo sostenere ad alta voce che si può fare, che ciascuno può a suo comodo ignorare le regole e fare come più gli conviene, è il carburante della nostra corsa verso l’imbarbarimento. È lo stesso atteggiamento che porta alcuni “consulenti fiscali” a dirmi, come fosse la cosa più normale del mondo, “tanto comunque un po’ di nero lo fai, no?” (più altri suggerimenti per procurarmi finti costi che non ho voglia di raccontare, né di seguire).

Non sono una santa, ma non voglio che mio figlio cresca con questa morale amorale: e voglio essere libera di denunciare chi ruba miliardi, senza che nessuno venga a dirmi “stai zitta tu, che, quando c’è stato da rubare un tappo di serbatoio, te lo sei messo in tasca”.

Io resto dell’idea di Viroli:

Sia detto una volta per tutte: persone che sragionano nel modo che ho descritto possono vivere soltanto da servi.

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