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pensieri, letture, allegrie e sconforti di una che fa le cose con passione

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Se non ora, quando? Anche sempre

Sono anni che non vado in piazza a manifestare, e sono anche anni che mi tengo lontana dallo stanco rito dell’otto marzo, e mi impegno piuttosto per affermare il valore e la dignità delle donne in ogni gesto quotidiano – lavorare, parlare in pubblico, essere un certo tipo di madre.

Ma domani andrò anch’io: la misura è colma, e, per quanto poco possa servire, essere in tante e in tanti a dirlo qualche differenza la fa.

Conosco fior di donne in gamba, che lavorano seriamente, che creano sapere e ricchezza: sono stufa di vedere sui giornali e in tv solo veline svestite, giudicate per la misura delle loro tette e per la furbizia con cui la danno via.

Conosco uomini che collaborano alla pari con le donne, che sul lavoro le considerano in base al merito, e nella vita cercano compagne, non bambole di gomma: sono stufa di sentire battute stantìe (venite a investire in Italia che ci sono le belle segretarie, signorina si cerchi un marito ricco lei che è così carina), da parte di chi dovrebbe essere il primo ad aiutare il paese a crescere bene.

Il puritanesimo è l’ultimo dei miei problemi: personalmente, ritengo che fra adulti consenzienti tutto sia lecito, e non sarei contraria alla prostituzione legalizzata e tassata.

Ma non accetto che far la puttana sia diventato lo sbocco professionale “normale” e “consigliato” per le donne, quasi non fossimo capaci di fare altro. Se avessi una figlia, anche bellissima, le insegnerei ben altro; ho un figlio, e cerco ogni giorno di crescerlo con un’idea di donna che merita rispetto e si fa rispettare.

Qualcuno dirà che la penso così perché non sono abbastanza figa da vendermi: sono stanca anche di queste battute idiote, e tanto.

Domani vado in piazza anch’io, e non finisce certo qui.

Paola Bonomo “best of the best” al Linkedin European Business Award


Paola Bonomo, Rising Star e Best of the Best all'European LinkedIn Business Award 2010

Non solo Paola Bonomo ha vinto la categoria “Rising Star” del  LinkedIn European Business Award, ma si è anche aggiudicata il premio “Best of the Best”. E io ne sono molto felice, e contenta anche di avere – nel mio piccolo – contribuito alla sua vittoria, invitando quante più persone possibile a votarla.

Bravissima Paola :-)

una donna che merita di vincere

Aver conosciuto persone come Paola Bonomo è uno dei motivi per i quali sarò sempre grata alla rete e ai social network.

Paola è un’appassionata paladina dell’innovazione e del merito, una di quelle donne che, invece di lamentarsi di essere escluse dai piani alti del potere, fanno un passo avanti e si prendono oneri e onori dell’impegno. I suoi blog sono meglio di mille editoriali, e i suoi interventi nelle conversazioni (in rete e dal vivo) non sono mai banali.

Da quando è al Sole 24 Ore, vicepresidente responsabile della Online Business Unit, Paola sta contribuendo a costruire il futuro del giornalismo, che sempre più vivrà in rapporto con la rete.

Ora Paola Bonomo è in lizza nella categoria “Rising Star” del concorso LinkedIn European Business Award, unica italiana rimasta in gara; al momento è seconda in classifica, ma vi assicuro che merita di vincere.

Quindi, se ancora non l’avete fatto, spendete un minuto per votare per lei; per farlo vi serve solo avere un vostro profilo LinkedIn, e se ancora non l’avete vi consiglio di crearvelo (vi sarà utile per molte altre cose, vi assicuro!).

C’è tempo solo fino al 15 di marzo; il premio in palio è pressoché simbolico (un anno di abbonamento a un servizio online di teleconferenze), ma una donna in gamba sul podio è un risultato a cui vale la pena contribuire.

un passo alla volta, dall’inizio

“Scrivi anche tu un un post per la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne“, mi dicono. E, nonostante scriva spesso di donne in questo blog, da giorni sto a chiedermi da dove cominciare.

Perché il punto è proprio dove si comincia. Il punto d’arrivo – le molestie, le botte, le umiliazioni – giunge dopo un percorso in cui le donne, un pezzettino alla volta,  si lasciano perdere; in cui gli uomini, un pezzettino alla volta, imparano che possono passare il limite.

Allora io provo a ripartire dall’inizio, dai bambini. Dall’insegnare a mio figlio maschio – non con le parole, ma con i gesti di ogni giorno – che fra donne e uomini ci può essere rispetto e collaborazione. Che una donna – sua madre – ha anche altre cose a cui pensare oltre alla famiglia, ed è normale e importante che sia così.

Se avessi una figlia femmina, le insegnerei – come hanno fatto i miei genitori con me – che lei ha valore, a prescindere dal fatto di avere un moroso. Che il suo valore sta nei suoi pensieri, nelle sue idee, nell’impegno.

E poi provo a continuare nel lavoro di tutti i giorni, usando in modo corretto il potere e la responsabilità, non avendo paura di prendere la parola anche quando sono da sola.

Non ho molto altro da aggiungere. Sono fortunata, i miei genitori mi hanno rispettata e cresciuta bene, ho avuto anch’io le mie storie sbagliate ma niente che passasse il limite dove la stronzaggine si trasforma in abuso.

Le storie di botte e di abusi e di violenza vera le lascio raccontare alle altre, e le ascolto con rispetto e sgomento.

riflessi condizionati

Premessa: noi con Guido abbiamo smesso di usare il passeggino più o meno quando lui aveva due anni. Credo che la decisione sia stata presa nel momento in cui abbiamo sostituito la Polo Variant, dotata di comodo portabagagli da station vagon, con la Multipla, comodissima per i passeggeri ma dotata di vano bagagli piccolo e ulteriormente ridotto dall’ingombrante ruota di scorta.

Fin dalla sua seconda estate (età circa venti mesi) l’abbiamo fatto camminare sui sentieri dell’Appennino, accontentandoci di fare passeggiate brevi, e sacrificando le spalle del babbo per trasportarlo quando proprio non ce la faceva più. Non abbiamo preteso di fare e fargli fare cose più grandi di lui, adattandoci ai suoi tempi e alla sua resistenza, e sicuramente siamo stati facilitati in questa scelta dall’innata pigrizia dell’ingegnere, e dalla mia cronica stanchezza degli ultimi anni, che ha decisamente ridotto la mia naturale iperattività.

Ne siamo stati premiati: il pargolo si è abituato velocemente a camminare senza protestare, e sta diventando un robusto escursionista, in grado ormai di farci percorrere sentieri che danno qualche soddisfazione.

Così avrei dovuto plaudere senza esitazioni all’articolo di oggi sul Corriere, “Quei bambini di sei anni ancora nel passeggino”. In effetti anche noi, quando all’entrata della scuola materna vediamo alcuni compagni di Guido arrivare in carrozza, storciamo la bocca con aria di superiorità.

Perché allora mi sento a disagio nel leggerlo?

Perché nell’articolo le uniche chiamate in causa per i danni causati ai bambini sono le mamme. Come se questi figli non avessero padri. Come se la responsabilità di far crescere i figli in modo equilibrato e funzionale fosse solo ed esclusivamente delle donne. Che oggi, guarda un po’, pretendono di districarsi fra molte altre responsabilità e incombenze, e allora trascurano i loro doveri primari.

Questo mi fa arrabbiare. La responsabilità di far crescere bene i figli, in un tempo in cui tutti abbiamo molte cose da fare, è di entrambi i genitori. Non sono “le mamme” che devono smetter di correre troppo, sono “i genitori”. Non sono “le mamme” che devono riflettere su come tenere in equilibrio le esigenze dei bambini e quelle della propria vita professionale, sono “i genitori”. Allora possiamo ricominciare a ragionare.

in escursione a 2000 metri

in escursione a 2000 metri

ripartire da dove

Rileggo con calma l’articolo di Maria Laura Rodotà,  “Veline, escort, maschilismo. Lettera aperta alle donne”.

Mature (invisibili) e giovani (preferibilmente scollate) […] Umiliazione collettiva […] Care tutte, che si fa? […] Rompere le scatole in modo capillare […] Ripartire dall’autostima.

Ripartire? Mai stata ferma in questi anni.. Come fanno anche altre, ne scrivo, ne parlo, e, ogni volta che riesco ad afferrare una piccola leva su cui agire, faccio il possibile. Che negli ultimi tempi siamo di più a parlarne, mi pare insieme una buona notizia e un pessimo segno, di tempi in cui c’è bisogno di ribadire anche concetti che sembravano assodati.

Oggi una persona incontrata a una riunione  (in cui ero l’unica donna presente, come spesso mi accade) è venuta a salutarmi, a riunione conclusa, e mi ha detto ridendo “mi piace vederti così.. cattiva”. Spero non si sia sbagliato, saper essere anche cattiva è necessario, tanto più adesso.

scriversi addosso

L’ultimo post di Giuliana mamma in corriera, “Le mamme, il web, la noia e il territorio”, e quello di Mariela exploradora che ne è stato l’innesco, “Le mamme, la rete. Più asfissiante di così..”, mi si mescolano in testa alle considerazioni sul rumore di fondo fatte da Gaspar al RomagnaCamp.

Ci ho ragionato su tutto il giorno, ma alla fine ne esco solo per la strada della tolleranza e della capacità di scegliere dove stare, chi ascoltare, come spendersi.

Le generalizzazioni sono utili e comode, ma a patto di essere consapevoli dei loro limiti: possiamo dire “le mamme in rete”, “le donne”, “i blogger”, o “<un gruppo a caso individuato sulla base di un criterio purchessia>”, e costruirci sopra un modello funzionale; ma accettiamo che ci siano un mare di eccezioni, e che ciascun individuo, nella sua interezza – a saperla conoscere tutta – , sia molto di più e per vari aspetti molto diverso rispetto al prototipo che gli abbiamo appiccicato sopra.

Non amo la retorica della maternità, pur avendola vissuta finora con più soddisfazioni e piacere che fatica. Ho spesso scritto qui della stanchezza, dei dubbi, dell’insofferenza, e ho usato e uso l’ironia per navigare ogni giorno anche nel mio crescere un figlio.

Non mi stupisco che un gruppo di donne, tutte con figli, si trovi a parlare dell’esperienza di averne fatti, a livelli più o meno profondi e passando per dettagli pratici e consigli da nonne. E’ esattamente quel che accade in ogni gruppo minimamente accumunato da un’esperienza: i friendfeeders, per dire, si danno consigli sulla configurazione di FriendFeed, argomento il cui interesse per l’umanità, lo ammetterete, non è superiore a quello del rapporto qualità/prezzo di una marca di pannolini. Così, che vengano pure il Momcamp, i siti permanenti con forum & community (per un paio di mesi ho trovato in GenitoriChe conforto e confronto, poi l’ho lasciato perché il resto della mia vita ricresceva in importanza e reclamava tempo; altre community di genitori avevano approcci e linguaggi più distanti dal mio, le ho assaggiate e scartate subito), ma anche Grillo, le operazioni furbette e quelle oneste, le chiacchiere che nascono da altro: siamo abbastanza grandi da riuscire a scegliere cosa vale la pena di seguire, o no?

Siamo abbastanza sagge da capire quando ne abbiamo fatto indigestione, ed è il caso di staccare? per un’ora, una settimana, un anno? Lasciare un gruppo, chiudere i socialcosi, stare scollegati dalla rete, smettere di comprare il quotidiano che abbiamo letto per anni?

Sta qui il punto. Saper scegliere, e tagliare il troppo, il rumore, l’inessenziale. Accettando che il “nostro” essenziale possa essere diverso da quello degli altri – anche di persone che, per certi aspetti, sentiamo vicine.

Mariela, buona strada, dovunque ti porti. Giuliana, sono sicura che si può essere gruppo quando serve farsi ascoltare, ma restare persone pensanti, che sanno vivere in gruppi diversi, fuori dai gruppi, fra esseri umani, e comunicare con gli altri – e con se stessi.

cento di queste donne

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Oggi ho il privilegio di aver compiuto cento anni, privilegio che non molti altri hanno, e il privilegio di conservare ancora la capacità di intendere e di volere, e di lavorare ancora alle mie ricerche sul sistema nervoso. […] È una fortuna per me incredibile essere ancora fra i viventi, dopo aver attraversato momenti non sempre facili. Credo che la cosa più importante della mia vita sia stato aver dedicato tutto il tempo possibile a chi ha bisogno. Il corpo può morire. Ma  restano i messaggi che abbiamo mandato in vita. Perciò il mio messaggio è questo: credete nei valori.

Rita Levi Montalcini compie oggi 100 anni.

paradossi solo apparenti

Ho fatto passare l’otto marzo ignorando volutamente la ricorrenza, perché da anni mi sono convinta che l’otto marzo o è tutti i giorni, o è una presa per i fondelli.

Ho in ogni caso molto apprezzato il post di LivePaola, che cita e commenta il rapporto Cerved sulle imprese italiane guidate da donne: se ancora non l’avete letto, fatelo, ne vale la pena.

Io di mio ho passato la settimana scorsa a leggere un libro di cui si è abbastanza discusso negli ultimi tempi, “Il paradosso dei sessi” di Susan Pinker. Presentato e promosso come un testo rivoluzionario, che “getta nuova luce sulle differenze fra uomo e donna e offre spunti inediti per riaprire il dibattito” (quarta di copertina), il libro in realtà mi è sembrato una rimasticatura in chiave sociologica di “Venere e Marte”, meno fresca dell’originale e un po’ più inquietante per le conclusioni a cui arriva.

L’autrice, che nella sua pagina di biografia si definisce “a psychologist and newspaper columnist who writes about social science for the daily press”, raccoglie e presenta diversi dati ottenuti in ricerche psicologiche e sociologiche, e li mescola ad alcune interviste presentate come “case histories” esemplificative delle sue teorie.

Il succo dei “dati scientifici”:

  1. Esaminando campioni di maschi e femmine, la distribuzione statistica del QI  è diversa nei due gruppi: pur essendo il QI distribuito secondo la classica curva a campana, con i valori medi di uomini e donne equivalenti, la distribuzione nella popolazione maschile è più “schiacciata”, con code più lunghe ai due estremi. Cioè, banalizzando, esistono fra i maschi più idioti e più geni, mentre nei valori medi le donne sono più numerose.
  2. La distribuzione del “quoziente di empatia” (un analogo del QI, calcolato in base a test della capacità di interazione sociale) è nettamente diversa nei due sessi, con la curva delle donne decisamente spostata su valori più alti rispetto a quella degli uomini.
  3. I risultati scolastici delle donne sono in media migliori di quelli degli uomini, e il distacco fra i due sessi tende ad aumentare negli anni. Lo svantaggio che le donne avevano nelle materie matematiche e scientifiche va colmandosi, anzi nei paesi orientali è già annullato o invertito, mentre gli uomini continuano a restare indietro nelle materie linguistiche e letterarie
  4. Vari problemi psicologici sono distribuiti in modo difforme fra i sessi: la dislessia interessa gli uomini in rapporto di 4:1 rispetto alle donne, la sindrome di Asperger (una variante dell’autismo caratterizzata da assenza di deficit cognitivi, ottime performance scientifiche e tecniche, e totale disinteresse e difficoltà di gestione nell’ambito relazionale) è al 90% un problema maschile. Per converso, le donne soffrono maggiormente di depressione e stati d’ansia.
  5. E tuttavia, nonostante questo stato delle cose, le posizioni di potere restano in netta maggioranza occupate da uomini, e il divario retributivo fra i sessi non accenna a colmarsi. Anzi, sono molte le donne che, per scelta consapevole, decidono di abbandonare promettenti carriere o per dedicarsi alla famiglia, o per intraprendere percorsi professionali meno impegnativi.

Da cosa dipende tutto questo? La Pinker non ha dubbi: dato che, a suo dire, nel mondo occidentale non esistono più limitazioni oggettive a quel che le donne potrebbero fare, il fatto che poi esse non vogliano farlo dipende da una diversa predisposizione psicologica, determinata in ultima analisi dagli ormoni.

Infatti, per farla breve, il testosterone limita le capacità linguistiche, stimola l’aggressività e aumenta la predisposizione al rischio; al contrario, l’ossitocina (prodotta in gran quantità ad esempio durante l’allattamento) aumenta l’empatia e genera uno stato di appagamento, che viene automaticamente collegato alle attività di accudimento.

Così, sempre banalizzando, i maschi rischiano senz’altro di morire giovani in imprese demenziali, ma quelli che sopravvivono sono più tosti, e, tendendo a fregarsene del prossimo, macinano carriera più facilmente. Inoltre, se c’è da occupare un posto che richiede impegno totalizzante, scarse o nulle interazioni sociali, e una dose di astrazione al limite della paranoia (insomma, il tipico lavoro da ingegnere), beh chi vi viene in mente di così malato da metterci? Una donna?

E, dall’altra parte, quanti uomini sacrificherebbero una fetta di stipendio per fare un lavoro appagante dal punto di vista umano, impegnato nel sociale, che comporti accudimento anche fisico di altre persone; o, addirittura, questo lavoro lo farebbero gratis, come fanno milioni di mogli e madri e figlie senza battere ciglio?

L’aspetto irritante di questo ragionamento è che mescola dati reali e affermazioni che tanto reali non sono. Il risultato è quello di giungere a una conclusione che suona più o meno come “sorelle mie, smettetela di sbattere contro il tetto di cristallo, non è roba che fa per noi, anzi, chi ci incita a sfondarlo in realtà non rispetta il nostro essere differenti!”.

Ci ho ragionato sopra, perché la fatica di conciliare lavoro e famiglia e un po’ di vita personale la conosco tutta (nonostante un marito che si prende tutta la sua parte di responsabilità familiari, come pochi in questo paese sono abituati a fare). E so che gli ormoni contano, e so che ci sono difetti e pregi che è più probabile trovare ora nell’uno, ora nell’altro sesso.

Tuttavia, la storia non sta tutta qui.

Partiamo dall’influenza dei dati biologici. Innanzitutto, lasciatemi spazzare via qualunque citazione che riguardi esperimenti comportamentali condotti su topi, cavie, pinguini (ad esempio, le topine che dopo il parto diventano più brave a uscire dai labirinti, e amenità simili). Siamo mammiferi e siamo condizionati dal nostro essere fisico, senza dubbio, ma siamo anche dotati di un cervello estremamente grande rispetto alle dimensioni del nostro corpo; è questa la caratteristica che più ci marca come specie. Se la maggior parte degli animali ha comportamenti e reazioni rigidamente determinati, gli individui della nostra specie mostrano un’enorme variabilità, che deriva dall’estrema adattabilità dei nostri schemi cerebrali.

Come scrive uno dei maggiori biologi evoluzionisti del XX secolo, Stephen Jay Gould:

Flexibility may well be the most important determinant of human consciousness; the direct programming of behaviour has probably become inadaptive. [..] Violence, sexism and general nastiness are biological since they represent one subset of a possible range of behaviors. But peacefulness, equality, and kindness are just as biological – and we may see their influence increase if we can create social structures that permit them to flourish. [“Ever Since Darwin”, p.257]

Insomma, parlare per generalizzazioni può essere comodo, ma teniamo sempre presenti che, soprattutto per gli esseri umani, le generalizzazioni valgono quel che valgono, perché la variabilità è enorme e i possibili adattamenti sono tutti altrettanto leciti e naturali.

Peraltro, dopo essermi ripassata tutti i fondamentali, mi sono anche riletta meglio i dati della Pinker, e ho notato che lo studio sulle distribuzioni del QI che lei cita come base di tutto il ragionamento successivo è una ricerca degli anni ’30. Ora, dagli anni ’30 in avanti, ci sono state centinaia di altri studi e ricerche che hanno messo in dubbio l’effettiva validità del QI come parametro di valutazione delle differenze tra gruppi: si è visto come i primi test del QI fossero estremamente condizionati dal background socioculturale, e ricerche successive hanno inficiato i primi risultati e ridimensionato l’importanza di questo parametro. Quindi, siamo sicuri di stare ragionando su dei dati buoni? Mah, io qualche dubbio ce l’ho.

Ma la Pinker ci porta tutta una serie di testimonianze di donne di successo che a un certo punto se ne sono tornate a casa, e ne conclude che alla fine “non è questo che le donne vogliono, tant’è che non se lo prendono neppure oggi che lo potrebbero avere”. Questa è la parte di ragionamento su cui mi sono arrabbiata di più.

Perché quella considerazione apparentemente buttata lì, “oggi le donne potrebbero in teoria fare tutto”, è uno dei pilastri di tutto il ragionamento. Se non esistono limiti esterni, allora il fatto che le donne non occupino i piani alti significa semplicemente che i piani alti non fanno per loro.

Io conosco un sacco di donne che non hanno il lavoro fra le loro priorità. Che fanno un passo indietro piuttosto che due avanti, che appena restano incinte si mettono a sedere, e programmano un rientro il più tardi possibile.

Però conosco anche molti uomini che non hanno il lavoro tra le loro priorità. Sì, lavorano, e certo, raramente si mettono in congedo parentale, ma non si prendono più impegni di tanto, esattamente come le donne di prima.

Però per gli uomini è più abituale, comunque, lavorare a tempo pieno. Forse perché vengono selezionati e assunti prevalentemente da altri uomini? Nelle grandi aziende, spesso il reparto HR è guidato da donne, ma quante sono le grandi aziende in Italia, e quante invece le microaziende col padroncino? e come cambiano visibilmente le cose quando a capo della microazienda è una donna?

Poi, i condizionamenti. Siamo proprio sicuri che ormai non ce ne siano? Non so in Canada, sicuramente in Canada è meglio, ma da noi di discorsi e luoghi comuni su quel che “è naturale” aspettarsi da maschi e femmine io ne sento tutti i giorni, mio malgrado. A partire, purtroppo, da un impresentabile Presidente del Consiglio, che, per citarne una delle migliori, qualche anno fa invitava i manager di Wall Street a “investire in Italia, perché da noi ci sono le belle segretarie”.

È ancora molto comune trovare stereotipi imbarazzanti nei libri per bambini. Qualche giorno fa, mio figlio ha portato a casa dalla biblioteca dell’asilo un libretto, sarà stato stampato non più tardi degli anni ’90, su “cosa farò da grande”, in cui il 90% dei personaggi erano orsetti maschi, che si proponevano di fare i più diversi mestieri, e le poche orsette femmine facevano, indovinate un po’, l’infermiera (con a fianco l’orsetto futuro dottore), la hostess, e la diva del cinema. Vi assicuro che non è il primo caso di questo tipo che vedo, nonostante stiano crescendo in quantità e qualità i libri che trattano bambini e bambine in modo più sensato, senza nemmeno scadere nel politically correct più banale. Cosa si abituano a pensare i bambini e le bambine, magari con una madre a parttime (che il fulltime, se non si hanno nonni a disposizione, è un’impresa ardua), rispetto a quel che è normale fare da grandi? Certo, le cose cambiano col tempo, son molto cambiate, ma non pensiamo che tutti i condizionamenti siano magicamente spariti, e che non ce li portiamo addosso – facendo chi più, chi meno fatica a liberarsene.

E per finire: io non voglio lavorare per tutta la vita dieci ore al giorno. L’ho fatto, in alcuni momenti, ma non penso nemmeno che sia produttivo lavorare dieci ore al giorno, come regola.

Se si tratta di fasi straordinarie di lavoro intenso, ok, penso che ne possa valere la pena, e penso che ci siano fior di donne in grado e con la voglia di sbattersi. Ma se si tratta di un codice sociale, tipo “la fedeltà si misura da quanto straordinario fai”, allora lasciatemi dire che sono stronzate.

Liberiamo un po’ tutti, uomini e donne, la nostra vita e il nostro lavoro dai riti inutili: le riunioni troppo lunghe, il dover lavorare per forza dall’ufficio, le trasferte per dirsi cose che basterebbe una videochiamata con Skype.

Ci resterà, a tutti, uomini e donne, più tempo per fare altro, e sciacquarci la mente nella vita, nei libri, nella natura. Ci servirà anche a lavorare meglio.

Diamo anche il valore che hanno – anche un valore economico, cioè dei buoni stipendi, per essere chiari –  a quelle attività, spesso tipicamente femminili, che hanno a che fare con la socialità e l’accudimento. Paghiamo bene insegnanti, infermieri, assistenti sociali – pretendendo che siano preparati e facciano bene il loro lavoro.

È a questo che serve spingere il più possibile le donne ai piani alti del potere: a costringere tutti a cambiare, think different please, i vecchi schemi non funzionano più, è ora di rivoluzionare le regole.

Vedrete che dopo (il rapporto Cerved è lì a testimoniarlo) funzionerà meglio.

cominciare male la giornata

Scorro velocemente la homepage del Corriere.it, e sfortunatamente inciampo nell’articolo di costume:

homecorriere

Ora, che nel 2009 io debba leggere nei titoli di un quotidiano nazionale che si da arie di serietà la frase “e ora si discute: meglio belle o intelligenti”, è una cosa che trovo deprimente. Sul serio.

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