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pensieri, letture, allegrie e sconforti di una che fa le cose con passione

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chiamatelo pure servizio…

Nel pieno dello spleen di gennaio, non paga dell’orgia di saldi del 2, ho deciso di comperarmi anche un paio di libri su Amazon.uk, e, il 5 gennaio, ho fatto il mio ordine.

L’ultima volta che avevo comprato un libro lì, mi era arrivato a casa nel giro di una settimana scarsa, così il 10 ero già in fregola pregustando il piacere di aprire il pacchetto al ritorno dal lavoro. Invece, niente. Verso metà mese, sono andata nell’area Tracking Your Orders, e, vedendo una data di consegna attesa per il 12 gennaio, ho cominciato a innervosirmi.

Ho scritto un mail “where’s my stuff” dalla pagina di help, e, in poche ore, il cortesissimo servizio clienti di Amazon mi ha risposto, spiegandomi che effettivamente si era andati oltre i tempi di consegna normali, e che, in caso di ritardi particolarmente prolungati, si sarebbero fatti carico di tutte le loro responsabilità. Mi hanno chiesto cortesemente di pazientare fino al 20, e così ho fatto.

Il 20 sera, ancora niente. Così, il 21, ho riscritto, spiegando che purtroppo ancora non avevo ricevuto nulla. Tempo due ore dalla segnalazione, e mi hanno riscritto scusandosi di nuovo, e garantendo che, visto il mancato rispetto dei loro standard di servizio, mi avrebbero immediatamente inviato un nuovo pacco con i miei due libri. A ruota, è seguito l’avviso di spedizione.

Il giorno dopo (ieri) sono tornata a casa per pranzo, cosa che faccio di rado; nella buchetta, un avviso di Poste Italiane mi informava che c’era un pacco da andare a ritirare all’ufficio postale dal giorno seguente. Dato che sapevo che in casa c’era gente, sono salita su a passo da bersagliere, spinta anche dal roteare delle sfere, ho preso il telefono e ho chiamato per farmi spiegare perché, con tre persone in casa (anzi 4, contando anche Guido: Paolo, la zia che badava Guido, e la colf), il postino non si fosse sbucciato il dito a suonare alla porta per lasciare il pacco (già mi è successo in ufficio con delle raccomandate…).

E qui viene il bello: quella che mi ha risposto all’altro capo del telefono mi ha spiegato che il postino non aveva con sè il plico, perché trattavasi di “pacco voluminoso”, e questi non vengono più consegnati a casa. Ho chiesto se stava scherzando; no!, anzi, secondo lei questo era a maggior vantaggio del cliente, perché, se il postino si porta dietro il pacco e poi non trova nessuno, essendo il pacco voluminoso mica lo può lasciare fuori dalla buchetta, dove la pioggia potrebbe rovinarlo o qualcun altro potrebbe prenderlo.

Insomma, a quanto pare il servizio postale italiano non prevede più la copertura dell’ultimo miglio, se non per le lettere standard: questa è a carico dell’utente (user managed delivery?).

Suppongo che questa sia una novità dell’ultima ora, visto che, fino a prima di Natale, ho regolarmente ricevuto a casa pieghi di libri di dimensioni e peso anche maggiori di quello che oggi la santa zia è andata a prelevarmi alla posta (per evitare che io facessi una strage, visti gli urli che mi ha sentito fare al telefono).

Dopo questa e il ritorno di svariati biglietti di auguri natalizi per “indirizzo sconosciuto” (a indirizzi regolarmente esistenti, ovviamente), mi confermo nel proposito di usare il meno possibile gli scadenti servizi di Poste Italiane. Mi chiedo anche, se le Poste sono arrivate solo quarte nella classifica 2008 delle companies to incazz for, la situazione è veramente oltre il punto del non ritorno.

PS: ho naturalmente avvisato Amazon.uk dell’arrivo del primo pacco spiegando il problema,  garantendo che non accetterò il secondo recapito, e ringraziandoli per la cortesia ed efficienza, e ho ricevuto dopo cinque minuti un messaggio di risposta scritto da un essere umano, altrettanto gentile dei precedenti. Quando si dice “alti standard di servizio”..

change we can believe in?

Ho speso qualche giorno dell’ultima settimana di ferie nella lettura di Meritocrazia, il libro di Roger Abravanel già recensito molto bene, fra gli altri, da LivePaola in due post di qualche tempo fa.

I primi otto capitoli del libro fanno un’analisi approfondita del “mal di merito” italiano: non condivido al 100% tutte le opinioni espresse da Abravanel, in particolare la sua fiducia – che in certi momenti mi pare esagerata – verso i sistemi “puramente meritocratici e liberisti”, ma senz’altro mi trovo d’accordo con l’esame dei guasti generati dal familismo italico e dall’abitudine nostrana a privilegiare l’appartenenza rispetto alla competenza.

La lettura mi ha anche suscitato diverse riflessioni su scelte che avrei potuto/dovuto fare (o poter fare), soprattutto verso la fine del mio percorso scolastico, riflessioni che sto cercando di rielaborare in alcuni “cosa potrei fare adesso”, o, quantomeno, “cosa mi devo ricordare per quando Guido sarà grande”.

Ma non son queste le cose di cui volevo scrivere qui e ora.

Il capitolo senz’altro più stimolante è l’ultimo, che contiene quattro proposte in grado, secondo l’autore, di “invertire la rotta” e riportare l’Italia sulla strada della valorizzazione del merito.

Il guaio è che io le ho lette, e, pur trovandole condivisibili, faccio molta fatica a credere che siano realizzabili. Proprio per tutti i motivi esposti nei primi otto capitoli del libro, trovo estremamente improbabile, per dire, che una “delivery unit” abbia qualche possibilità di funzionare in Italia con risultati analoghi a quelli conseguiti in Gran Bretagna (del resto, come nota lo stesso Abravanel, l’esperimento fu tentato da Prodi, con scarsissimo successo). L’idea che si possa istituire un sistema di valutazione nazionale per le scuole? forse la Gelmini ce la può fare a farlo partire, ma già mi immagino i ricorsi e controricorsi a Tar&C da parte di genitori, presidi, professori che si ritengano discriminati da valutazioni troppo basse. L’Authority per le liberalizzazioni? Mai vista, in questo paese, un’authority autorevole ed efficace, sorry. Le quote obbligatorie di donne nei CdA, modello Norvegia? D’accordo totalmente sulla necessità e l’utilità di una misura del genere, ma, vista la probabilità di mettere questo genere di misure in agenda, mi sembra più pratico richiedere l’annessione forzata alla Norvegia. Con altri effetti collaterali interessanti, magari.

Insomma, proprio in questo momento non ce la faccio a credere nel cambiamento. Non sono contenta della cosa, odio pensare a “risolvere i miei problemi” accantonando la speranza di “affrontare i problemi di tutti”, e non mi piace pensare di essere diventata sfiduciata proprio ora che, con un figlio, dovrei pensare al futuro con ancora maggiore impegno.

Metto da parte tutto, e aspetto che mi torni un po’ di fiducia (non speranza o fede, fiducia razionale).

Quel che non metto da parte è l’etica personale, il comportarmi in coerenza con i miei principi nella vita e nel lavoro. Per quel che può fare, ritengo sia comunque qualcosa.

Attendo segnali che mi facciano cambiare idea.

disintossichiamoci una buona volta!

L’ultima bufala della cosiddetta informazione, quella degli MP3 droganti, dà la spinta finale a una decisione che stavo covando da qualche settimana.

Dopo aver abolito dalla mia vita telegiornali e televisione tutta, mi prendo anche un paio di mesi di vacanza da Repubblica, che è in piena versione estiva (ultraslim ma infarcita di cazzate).

Perché dedicare un quarto d’ora, una mezzora di tempo ogni giorno a leggere testi pieni di luoghi comuni, imprecisioni, opinioni di incompetenti, titoli fuorvianti, banalità presentate come la notizia del giorno? Tre ore a settimana in più per la mia vita, ci posso dormire, guardare il mare, giocare con Guido…

Negli ultimi tempi, mi sono rimasti particolarmente sullo stomaco:

  • “un piatto di carpaccio inquina più di un SUV”: eh suvvia, avete proprio misurato bene?
  • “ultima tendenza USA: asciugare i panni al sole”: ah grazie, avevo giusto bisogno del trend ammmericano per farmi spiegare che l’asciugatrice elettrica costa di più e li asciuga peggio…
  • “Google ci sta rendendo tutti più stupidi?”: non commento, che altri l’hanno già fatto meglio di me
  • uno strepitoso decalogo nel supplemento “Salute” su cosa fare per evitare il terribile pericolo delle punture di insetti: praticamente, passare l’estate blindati in casa, e uscire solo se coperti dalla testa ai piedi o se incapsulati nella propria auto a finestrini chiusi, e/o avvolti in una nuvola di veleno insetticida. Minchia che bella estate!

Insomma, in rete trovo testi scritti meglio, più informati, commentabili e sottoposti a uno stretto controllo collettivo su veridicità e fonti: chi me lo fa fare di spendere trentacinque euro al mese per il quotidiano, consumare carta e inchiostro, e prendermi pure del nervoso?

dalla mailing list al network

[ndr: per pigrizia mia, e soprattutto perché questi argomenti mi interessano sia personalmente che professionalmente, questo post lo ritrovate tal quale anche nel blog di Wafer, che comunque vi invito a visitare, perché ci scrivo anche di altro ;-)]

Venerdì scorso, su segnalazione del Forum Cultura del PD di Ravenna, ho partecipato a un incontro sulla comunicazione politica, animato da Antonio Sofi e Giovanni Boccia Artieri. Le riflessioni che ne sono scaturite mi sembrano interessanti non solo rispetto al tema della comunicazione politica, ma anche, più in generale, di come sta cambiando la logica della comunicazione.

Sofi, appena rientrato dal Personal Democracy Forum di New York, ha riassunto in poche frasi la differenza di strategia fra i due candidati democratici: Hillary Clinton aveva una enorme “mailing list”, cioè era in grado di comunicare e mobilitare centinaia di migliaia di persone fra gli attivisti e i simpatizzanti già “collegati” al partito democratico. Al contrario, Barak Obama, non potendo competere sulla dimensione della mailing list, ha usato la potenza del network, cioè ha aperto spazi in cui le persone potessero auto-organizzarsi e auto-connettersi. In questo modo, la sua campagna si è auto-propagata, perché i simpatizzanti hanno potuto produrre loro stessi contenuti utili, coinvolgere persone che non si erano mai avvicinate prima alla politica, sentirsi motivati e rispettati dall’approccio “orizzontale” del loro candidato.

Dalla campagna per le primarie democratiche alla riflessione sull’ultima campagna elettorale italiana, il passo è stato naturalmente breve. Pur convenendo sul fatto che il PD ha usato la rete in modo decisamente più aperto e innovativo rispetto al PDL, ci si è trovati d’accordo nel concludere che – complice il poco tempo a disposizione – non si sia adottata fino in fondo la logica della rete. Quasi un “mi piacerebbe, vorrei, ma non posso fino in fondo”. Il risultato è stato che sono stati aperti spazi di discussione, che però, per come erano stati attivati, sono stati percepiti dai netizens come “imposti” o “governati dal centro”; di conseguenza, le persone sono andate a discutere in altri luoghi, e, cosa ancora più grave, chi gestiva la comunicazione non li ha seguiti, ma è rimasto a parlare più o meno da solo dei “suoi” siti.

Altri errori evitabili:

  • non ascoltare: il primo passo da fare è quello di andare a cercare i contenuti che producono gli altri, leggere i blog indipendenti, partecipare alle conversazioni anche quando sono “fuori casa”. E qui mi sono immediatamente ricordata di una lettura recente, Internet PR di Marco Massarotto, che, parlando della comunicazione aziendale, parte esattamente dallo stesso consiglio: primo, ascoltare
  • creare contenuti difficili da propagare, come video usabili solo sul sito della campagna e solo scaricando un plugin. Con una comunicazione televisiva schiacciata nei 20 secondi delle dichiarazioni da telegiornale, Internet offre la meravigliosa possibilità di approfondire e chiarire i concetti (tanto che uno dei video più visti di Obama è un suo discorso di 35 minuti sul razzismo, visualizzato milioni di volte). Perché allora non fare un “buon” video, di 20-30 minuti, e metterlo sì nel sito del partito, ma anche e prima di tutto su YouTube, da dove potrà essere ripubblicato su decine di migliaia di pagine, e raggiungere persone che sul sito del partito non ci sarebbero mai andate..
  • pensare di ottenere “tutto e subito”: la logica del network ha tempi di propagazione graduali, anche se a un certo punto può diventare travolgente
  • avere la pretesa di parlare contemporaneamente a decine di migliaia di persone: in rete i grandi numeri spesso si ottengono con un effetto “long tail”, per addizione di piccoli numeri, perché il contenuto valutato come interessante viene ripubblicato sul blog da 1000 visitatori, ma anche su centinaia di blog da 30 visitatori, o anche da 4 visitatori: ma sono 4 visitatori che, magari, “quel” contenuto dal suo sito di origine non l’avrebbero mai visto
  • pensare che, se i media tradizionali costavano migliaia e milioni di euro (che si continuano a spendere), la comunicazione Internet deve invece essere fatta “a gratis”: non è così, certamente i costi di Internet sono decisamente più bassi, ma la competenza si deve pagare, e poi in rete si deve spendere tempo, ancora più che denaro.

Insomma, si può fare.. di meglio. Per fortuna (?) di tempo a disposizione per fare di meglio adesso ce n’è, quindi… sarà bene rimboccarsi le maniche e mettersi al lavoro.

equivalenze

Tanto per mettere in ordine le idee: non ne posso più della contrapposizione fra quelli che dicono “invece di prendersela con i lavavetri e i parcheggiatori abusivi, farebbero meglio a multare chi parcheggia in doppia fila” e quelli che ribattono “invece di fare la multa a quelli che per due secondi parcheggiano in doppia fila, farebbero meglio a sgomberare i lavavetri e i parcheggiatori abusivi”.

Lo dichiaro pubblicamente: a me danno pari fastidio sia quelli che parcheggiano in doppia fila, sia quelli che, quando esco dalla coop, vengono – con fare ogni giorno un po’ più intrusivo – a sollecitarmi per il carrello e relativa moneta. Entrambe le categorie mi tolgono serenità e libertà, e non mi sento di essere tollerante nei loro confronti.

Per tornare ad essere tollerante e serena, avrei bisogno di vivere in un tempo più sereno e ordinato; in cui, senza bisogno di blitz e sirene spiegate, semplicemente non esistono parcheggiatori in doppia fila, gettatori di cartacce per terra, ambulanti questuanti che mi voglion vendere inutili cineserie al parcheggio.

auguri a una gran donna

Rita Levi Montalcini - dal sito ww.ritalevimontalcini.orgRita Levi Montalcini compie oggi 99 anni, portati in maniera invidiabile.

L’ho sempre detto io che le donne del Toro sono delle gran signore 🙂

Navigando in rete, ho scoperto il sito della sua Fondazione. Semplice, veloce, chiaro ed elegante. Concentrato sull’essenziale e sull’utile, e sempre mantenendo uno stile impeccabile.

In questi tempi cupi e confusionari, una boccata d’aria fresca, e un buon esempio da tenere in mente.

tentativi di elaborazione del lutto

Alle nove di ieri sera, la mia amica Cinzia mi ha mandato un SMS, “almeno hai un bel colore di capelli”.

Dopo aver messo a letto Guido, che erano quasi le undici, ho controllato i risultati, e poi ho fatto un giro di blog amici per condividere il lutto. Elasti affranta, anche lei in uno stato non consolabile neppure dai bimbi. Mantellini forzatamente ironico. Leggendo l’incipit di Stark, non ho retto più, e sono scoppiata a piangere e ridere allo stesso momento, più piangere che ridere per la verità.

manifesto dei repubblicani europeiStamattina al risveglio mi è tornato in mente il manifesto vagamente iettatorio dei Repubblicani Europei, che ho visto per la prima volta domenica mattina mentre pedalavamo verso il seggio: una donnina sfocata, con un sorriso malinconico, che tiene in mano la sua tesserina di puzzle verde (quando vedo una tessera di puzzle in un manifesto o in un sito, mi vien subito un conato di nausea: credo che non ci siano metafore più logore e abusate di quella…), e sopra, in nero (chi è l’art director? ditemelo, chi è???) la frase “insieme ce la faremo”, che mi ha subito fatto pensare a quelle cose che si dicono quando in famiglia c’è un lutto, o una brutta malattia.

Sì, in effetti mi sento come se tutto il paese avesse una brutta malattia. E non sono neanche sicura che insieme ce la faremo, a tener botta. Ho voglia di smettere per qualche settimana di comperare la Repubblica, per disintossicarmi di notizie, e sicuramente continuerò a tenere spenta la televisione.

PS: navigando per la rete arrivo all’amara analisi di Suzuki. Ne riporto le considerazioni finali, perché le condivido pienamente e non avrei mai avuto il tempo di scriverle altrettanto bene e per esteso.

PESSIMI BUONI PROPOSITI

In ultimo, qualche rapida riflessione sul “che fare?”.

Capitolo difficile. Non ho consigli da dare e francamente non credo di essere legittimato a farlo.

Posso dirvi cosa conto di fare io, avvertendovi che ragiono da una posizione di relativo privilegio (lavoro in proprio nel ricco nord produttivo, guadagno abbastanza bene, posso disporre liberamente del mio tempo e non devo rendere conto a nessuno delle mie azioni) e che ognuno fa storia a sé.

Una parte riguarda direttamente me. Le sconfitte fanno crescere, perfino se prese a raffica (ricordo a tutti che tifo per il Toro). Non amo il rito comunista dell’autocritica, preferisco riflessioni più pratiche e costruttive e detesto chi si piange addosso.

Un’Italia così mi disgusta, certo. Forse dovrei essere più compassionevole, ma vengo da un’altra cultura.

Posso solo prendere un impegno serio, che è migliorare me stesso. Tra l’altro c’è molto da fare. Credo laicamente alla teoria per cui i miglioramenti interiori portino benefici a ciò che hai intorno.

Credo anche che la gente che andrà al potere nei prossimi giorni sia pericolosa per i valori a cui tengo.
Parlo di valori veri, quelli che ti permettono di distinguere tra il bene e il male. E sono valori su cui non sono disposto a cedere, ma nemmeno a trattare.

Possono riscrivere i libri di storia, ma non riscriveranno la storia, possono santificare i mafiosi ma non renderanno appetibile l’ingiustizia a chi la subisce.

Ci sono cose non negoziabili. Ma non lo capiscono. E su questo, su queste vendette idiote e di bassa lega, genereranno tanta negatività che compatterà i loro avversari. Sono stupidi, certi berlusconiani: state pur certi che non mancheranno di farlo.

So per certo che in un’Italia sempre più “a misura di portafoglio” la difesa dei valori e degli stili di vita passa attraverso il denaro: vivere come si vuole è un lusso e lo sarà sempre di più.

E’ per questo che il mio pensiero costruttivo è quanto più di sanamente individualista e libertario si possa concepire e forse scandalizzerà qualcuno.

Per difendere la mia vita, la vita come la voglio io nella sua irrazionalità e irrequietezza (ed è una vita che mi piace e che voglio migliorare sempre di più e di cui non intendo rendere conto a nessuno), ma anche nei suoi valori che reputo buoni, credo che dovrò cercare di arricchirmi il più possibile.

Prima di gridare allo scandalo, rifletteteci.
Perché i soldi ti pagano la libertà, in questa Italia.
Ti pagano il diritto di abortire o anche solo di prendere la pillola del giorno dopo (basta pagarsi un viaggio in Francia), ti pagano il diritto all’eutanasia e ad una morte dignitosa, ti pagano una vita insieme se sei una coppia di fatto, ti pagano la libertà sessuale, la libera informazione, un’educazione laica e libera, una televisione non di regime, la libertà di assumere le sostanze che vuoi, un ambiente migliore, ecc.

Questo non vuol dire che smetterò anche per un solo centesimo di secondo di lottare affinché questo spetti di diritto a tutti, anche a chi non ne capisce l’importanza.

Ma a quasi 34 anni, dopo esattamente 20 anni di militanza ininterrotta e faticosa, credo che sia giusto ricordarmi che negli spazi tra una lotta e l’altra dovrei vivere.

il corso della giustizia – o meglio, la corsa

Antefatto: un lunedì mattina, verso la fine dell’agosto 2004, siamo arrivati nella sede di Wafer e l’abbiamo trovata aperta e svaligiata. Fidandoci della porta blindata e del terzo piano, non avevamo mai pensato di mettere un allarme, e contavamo sull’assicurazione della titolare dell’impresa di pulizie sul fatto che le chiavi del nostro ufficio le avrebbe tenute lei e solo lei. Invece, negli ultimi tempi, la chiave era stata affidata a una nuova addetta; e così, quel sabato, dopo le pulizie normali, qualcuno aveva anche riaperto l’ufficio, svuotandolo di circa 15.000 euro di attrezzature varie. Nonostante il quadro indiziario fosse piuttosto definito, la nostra denuncia restò a languire al locale comando dei Carabinieri. Qualche settimana dopo il fatto, la titolare dell’impresa di pulizie mi chiamò, quasi in lacrime, dicendo di aver ricevuto una strana telefonata che le diceva di non preoccuparsi della cosa; tornammo alla carica dal maresciallo, che, dopo un paio di ricerche in archivio, ci confermò in via informale che effettivamente il convivente dell’addetta alle pulizie era un poco di buono con vari precedenti, ma che tuttavia, per fare qualunque cosa, lui avrebbe dovuto aspettare l’autorizzazione a procedere da parte del magistrato (all’epoca non ebbi l’idea di far telefonare da un prete, magari sarebbe servito).

Nel frattempo, noi mandammo giù il magone (sì, io avevo pianto di rabbia quella mattina) e, dopo aver ricomperato tutti i computer, ci mettemmo al lavoro per rifarci della perdita e smettere di pensarci.

Oggi, febbraio 2008, io sono stata convocata al locale comando dei Carabinieri. Un gentile sottufficiale mi ha informato che, essendo arrivati da Telecom i tabulati telefonici a suo tempo richiesti (nelle settimane precedenti il furto, avevamo ricevuto una lunga serie di brevi telefonate silenziose, che avrebbero potuto essere tentativi di capire se, a cavallo di ferragosto, eravamo in sede o no), era necessario che io lo aiutassi a capire se, fra i numeri chiamanti, ve n’era qualcuno di sospetto.

Cercando di restare educata e reprimendo la voglia di indicare usi alternativi per quei fogli (non ho voglia di una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale), gli ho fatto notare che ormai, anche trovassimo tutta la refurtiva, dei computer usati di tre anni e mezzo fa sono pressoché ferrovecchio. Mi ha risposto che in ogni caso la mia collaborazione potrebbe servire a identificare il colpevole, e fargli rispondere del suo operato di fronte alla legge.

Gli ho ricordato che nel 2006 è stato promulgato un indulto, quindi, nell’improbabile caso in cui un nuovo indizio ci avvicinasse al colpevole, ciò non avrebbe per lui nessuna conseguenza. Mi ha risposto che lui deve applicare le leggi, a farle ci pensano altri; e che comunque non esclude che io venga convocata anche dal magistrato, sempre in merito alla vicenda.

Non ho altro da aggiungere, vostro onore.

ciao Romano

Quando ti ho incrociato alla Fabbrica in campagna elettorale, e avevo la pancia a punta dei sette mesi, ti ho augurato, indicandola “mi raccomando, due legislature, presidente!” e ti sei messo a ridere come un vecchio parroco, e l’hai toccata come a dare la benedizione.

Son passati poco più di due anni, e siam qua, che ti tocca a denti stretti dire in Parlamento “Mastella è stato un bravo ministro della giustizia”, e poi rivendicare duro di aver lavorato.

Nonostante la carica dei 101 ministri e sottoministri.

Nonostante il portavoce sfigato.

Nonostante lo spettacolo pecoreccio di una coalizione dove meno voti uno rappresenta, e più si sente l’ago della bilancia, e pretende pretende pretende.

Nonostante questa spazzatura che ci sommerge tutti, sei il miglior presidente del consiglio che questo paese abbia avuto negli ultimi trent’anni, ben al di sopra di quanto si meriti questo paese dei cachi.

A mio figlio  vedo di badarci io da sola, appena ha l’età lo spedisco a studiare in un paese civile, e speriamo che si trovi la morosa e ci resti. Grazie di averci provato, ci deve essere voluto dello stomaco.

ho le rughe anch’io, e allora?

Io per certe cose mi ci incazzo ancora. Hillary Clinton ha le rughe, so what? Nel 2007, anzi 2008, stiamo ancora a parlare di questo? Del fatto che una donna di potere si mette il fondotinta e si fa fotografare con i trucchi giusti, o usa una gonna con lo spacco, o è troppo finta d’immagine, o esce una foto che la ritrae stanca, o è troppo bella, o è troppo brutta? Ah, fa veramente paura il potere alle donne, e più fa paura più bisogna che ce lo andiamo a prendere, strattonando se serve.

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